Fra illuminismo e romanticismo: Saverio Bettinelli (1945)

Fra illuminismo e romanticismo: Saverio Bettinelli, «Aretusa», a. II, Roma, giugno 1945, poi in W. Binni, Preromanticismo italiano cit.

FRA ILLUMINISMO E ROMANTICISMO: SAVERIO BETTINELLI

Se la poetica pariniana può offrire l’esempio piú alto di una sintesi entro l’illuminismo italiano, sintesi poetica che sembra sigillare in maniera perfetta tutte le tendenze di un gusto sostanzialmente sensistico, possiamo prendere, come ulteriore riprova del clima medio poetico subito prima del preromanticismo, il volumetto che il Bettinelli pubblicò nel 1757 (con data 1758), aperto dalle famose Lettere virgiliane, e con il titolo Versi sciolti di tre eccellenti moderni autori e cioè di C.I. Frugoni, di Francesco Algarotti, dello stesso Saverio Bettinelli. Questi versi venivano proposti come modelli, come esemplari di poesia moderna, contro gli imitatori di Dante, del Petrarca e degli altri classici (e non da contrapporsi scioccamente a Dante e Petrarca!): modelli di «poesia vera, armoniosa, franca, nobile, colorita e spirante estro e ardimento» secondo le parole dell’editore, e poesia in versi sciolti perché (in contrasto con quanto dirà il Baretti) «la rima troppo avvilí la poesia, la rese volgare» (Lettera di Filomuso Eleuterio).

«Ma che dovette avvenire per render questa Poesia, per sé medesima sublime e nobile, comune al volgo, alle femmine ed a qualunque sorta di gente ignorante e stolta? Si prostituí essa a trattare gli argomenti piú bassi e triviali, si fece servire alla musica, ed alla mimica ancora, si travestí in vari modi inusitati e ridicoli e di matrona ch’era e reina, si fece divenire una sfacciata, ignobile e vile fantesca e si adoperò ad ogni uso senza riserva».

Invece «il verso sciolto niente ha per se stesso di dilettevole, e che alletti e trattenga, se non quanto riceve dalla nobiltà, e vaghezza delle immagini, dalla foga e vigore de’ sentimenti, dalla sceltezza delle parole, e dal giro e profluvio, direi cosí, del ragionare sostenuto con decoro e grazia ed animato da una vena perenne di facondia che non mai manchi di tener desta la fantasia e l’animo di chi legge, con nuove sorprese, con inaspettate bellezze, con nobili voli e soprattutto col dipingere gli oggetti in modo dilicato insieme e forte che paia averli davanti agli occhi, trattarli, maneggiarli dando loro quell’anima e quel senso che non hanno, ma che pure non offenda né la verità né la decenza, e che si adatti infine al piacere e al consenso di tutti e da tutti sia inteso e applaudito e tutti ne rimangano dilettati e convinti» (Lettera cit.). Al solito, diletto, utilità, convinzione, sensismo: descrizione oggettiva, non trasfigurazione fantastica o sentimentale.

E passando agli esemplari di questo volumetto di poesia sensistica, che cosa troviamo concretamente, risparmiandoci cosí ogni altro esame di singoli poeti, fuori dell’alta sintesi pariniana? Del Frugoni, che rappresenta la soluzione media del secolo, privo di ogni vis lirica non addomesticata, ci sono componimenti discorsivi, ragionativi, con un contenuto preciso di omaggio e di cicalata (il poeta qui pensa in quanti modi tentino i poeti di acquistar fama, e alle difficoltà dell’impresa). Atmosfera approssimativamente classicheggiante senza l’alto rigore pariniano, con qualche eco realistica che si diluisce in chiacchiera spiritosa o in riflessioni ragionevoli:

Bernier, su quest’Aurora, i’ non so come

desto mi son, che il Cacciator non lungi

romoreggiando per le secche stoppie

giva inseguendo e ne le tese reti

cacciando le pedestri, incaute quaglie

immemori de l’ali, e de la fuga.[1]

E l’Algarotti si mostra ancor piú arido e vicino alla punta estrema di una volgarizzazione in versi. Per esempio nella caratteristica poesia «alla maestà di Anna Giovannona, imperatrice di tutte le Russie»[2], si osservi la preminenza data alla scienza, alla fisica non solo come contenuto, come luogo comune del secolo (il secolo del newtonianismo), ma come nucleo d’ispirazione, come fonte di una lingua poetica, sperimentale, definitoria. Tanto che, a parte un elogio generico della nuova filosofia a base fisica

(Del Neutoniano Sole al vivo raggio

van dileguando del Cartesio i sogni),[3]

il centro del poemetto è costituito proprio da un’esperienza fisica, sollevata in un’esile perfezione classicistica e pervasa da un entusiasmo scientifico, volgarizzatore:

Qual diletto tu avrai nel veder come

in buia cella candido e sottile,

per un terso cristal varcando, il lume

ne’ vari suoi color si spieghi, e come

d’Iride fiammeggiante e vaga in vista

l’opposto lin diversamente tinga,

come il candor, misti di nuovo insieme

i divisi color, di nuovo emerga![4]

E del Bettinelli si può citare proprio il secondo poemetto da lui dedicato all’Algarotti, sopra la filosofia e la poesia. Anche qui l’argomento centrale è un pensiero filosofico che poi si dilata in elogio dell’illuminista veneziano (chiamato con epiteti estremamente significativi:

filosofo leggiadro, util Poeta

e or Tosco Orazio)[5]

e in un rimprovero polemico (anche il tono polemico è caratteristico di questo gusto) all’Italia perché non ha accettato pienamente la filosofia sensista e newtoniana:

tu dimmi, allor che il gran Padre Britanno

quel di natura e del saver, quel Padre

de l’aspettata verità divino,

alto a le genti mostrò l’aureo e colmo

del fisico tesor calice, e il porse,

quanto Italia di quel nettare attinse?

Ah troppo il sai, che dal salubre dono

torse il labbro la stolta, e l’ebbe a schifo;

tanto l’ozio poteo, tanto l’antica

da l’ombre uscita e di flagello armata

dotta ignoranza...[6]

Se questo è il tono poetico medio, la poetica dominante alla metà del Settecento e il Bettinelli ne è zelante fautore[7] (e lo è anche per la sua polemica nelle Raccolte[8] contro la vacuità letteraria per un nuovo contenuto serio e civile che fra tante diversità lo apparenta al Baretti), il Bettinelli ha però ben altra importanza per le sue idee culturali, per le sue feconde contraddizioni, per i suoi tentativi di attingere un nuovo senso della poesia, ha ben altra importanza nel travaglio che si celava nell’illuminismo italiano, tra esigenze nuove e forme vecchie, come rappresentante di esigenze nuove non potentemente rivoluzionarie, moderate, su base illuministica e pur destinate (e in parte proprio per questa loro moderazione e per il loro tono brioso da causerie, cui gli uomini del secolo erano già abituati) ad operare notevolmente in questo periodo di trasformazione del gusto e della poetica.

Si tenga anzitutto ben fermo che la poetica illuministica del Bettinelli (la poetica cui egli aderí praticamente e piattamente nella sua produzione originale) è non piú cartesiana ma chiaramente sensistica, sí che, mentre mantiene alla ragione un’assoluta funzione direttrice, rivendica però i diritti della sensibilità, e di un sentimento che risente molto della materialità e schematicità degli organi interni in cui il sensismo lo colloca, ma che è già un preannuncio del libero sentimento romantico. Chiarito questo punto per evitare l’impressione di novità miracolistiche o di contraddizioni insanabili, vogliamo rapidamente esaminare l’attività critica del Bettinelli che, distesa per circa cinquanta anni di continua discussione col secolo, supera di molto l’importanza dei suoi tentativi poetici e, tra audacie e remore, offre un contributo essenziale, non tanto ad una storia dell’estetica, alla precisazione di una nuova idea teorica della poesia (ma una nuova estetica, a parte le intuizioni grandiose di un Vico, non si avrà certo neppure nel pieno romanticismo italiano[9]), quanto ad una storia di cultura letteraria, di gusto, di sensibilità. Il Croce[10] lo cita nella storia dell’estetica perché in lui «spira aura di libertà», ma poi limita l’importanza teorica del suo libro sull’Entusiasmo. «Il libro del Bettinelli non contiene altro che vivaci ed eloquenti determinazioni empiriche della psicologia del poeta, dell’entusiasmo poetico». Ma per noi, per il nostro studio di poetica, non di precisa teoria estetica, sono appunto quelle determinazioni empiriche che hanno importanza, sono quelle intuizioni nuove, anche se non teoricamente giustificate, che ci interessano come contributo e prova di un cambiamento del gusto tra i letterati e i poeti, tra gli effettivi attuatori di un nuovo clima poetico.

Anche un Leopardi non porta una nuova teoria, ma chi vorrà negare l’estrema importanza nella storia letteraria delle sue intuizioni, del suo gusto, dei suoi atteggiamenti estetici anche fuori della loro precisa funzione poetica, anche fuori di un personale mondo di poesia? Importanza ben chiara in una impostazione di storia letteraria che sia concreta ricostruzione della trama letteraria su cui sorgono le singole personalità. In questo senso si può ben vedere nelle intuizioni bettinelliane un nodo importante nella storia della letteratura preromantica.

Se si vuol tracciare una ideale biografia di questo letterato settecentesco, in cui germi nuovi, remore tradizionalistiche e confessionali lottano e si armonizzano in un clima ancora illuministico, bisogna partire dal suo ritratto di conversatore elegante e appassionatamente curioso e irrequieto, che si rivela nelle sue relazioni con i letterati del tempo, con le varie Lesbie Cidonie, con i suoi colleghi gesuiti e illuministi[11], con gli illuministi, italiani e stranieri[12], e soprattutto con il massimo degli illuministi, con il Voltaire. Ed anzi chi volesse cogliere la sua figura e il suo piacevole stile settecentesco (in cui vedremo però affiorare l’equivalente sensibile delle sue intuizioni preromantiche) deve rivolgersi a quelle gustosissime pagine, in cui egli racconta di Voltaire della sua visita fattagli nel 1758, in quelle tre lettere[13] che, pure in un impegno stilisticamente mediocre, superano l’effetto di un quadretto (Voltaire con il suo berrettino di pelo e con il suo viso scimmiesco, Voltaire nei suoi gusti culinari, Voltaire che zappa il suo campicello) e investono tutto il clima accogliente, non teso, di queste relazioni settecentesche, cosí importanti in una poetica di società, a base conversatoria, didascalica, non lirica.

E per completare subito i limiti di questo illuminista italiano e gesuita, sullo spunto di una paginetta sul Giannone (paginetta leggermente infame) si deve ricordare una lettera sull’Alfieri che conferma il suo fondo reazionario, il suo veleno voltairiano-gesuitico, la sua posizione di illuminista, che corroborava le sue prediche con argomenti sensisti e volgeva la forza rivoluzionaria insita nell’illuminismo a rinforzare la sua adesione al suo ministero gesuitico[14], ma che soprattutto interessa per una limitazione del suo gusto di fronte alle estreme conseguenze proprio di quella nuova sensibilità da lui presentita con tanta finezza e con tanta cautela e in certo senso chiarisce l’equivoco insito in molti preromantici italiani che, ignari dell’opera preparatoria da essi compiuta, arretravano atterriti davanti alla rivoluzione romantica, quando appariva intera fuori del tepore settecentesco. Cosí il Cesarotti di fronte alle Ultime lettere di Jacopo Ortis, cosí il Bettinelli di fronte alle tragedie alfieriane. In una lettera (vol. XX delle Opere ed cit.) al canonico De Giovanni sulle tragedie dell’Alfieri, mentre lo chiama «il nostro Sofocle», lo giudica però eloquente, non poetico, privo della dolcezza di un Racine o di un Voltaire, e mostra di non capir assolutamente il suo estremismo romantico. Lettera molto notevole per i problemi che pone sul contrasto tra l’Alfieri e i letterati del Settecento, i quali se pur ricchi di fermenti nuovi, tanto da rientrare validamente in questa storia del preromanticismo italiano, allibivano di fronte ad una poesia cosí poco «dolce e dilettevole», ad una poetica in cui la passione ben piú che politica, umana e potremmo dir religiosa, si esprime immediatamente nella piú nuda efficacia, se pure in misure di apparenza classica.

L’amore dell’Alfieri per la libertà urta contro il moderato riformismo illuministico, la sua passione sconvolge un mondo che, malgrado i suoi fermenti, era rimasto in equilibrio e che, se intuiva la libertà della poesia (e spesso piú del capriccio, dell’estro), non comprendeva le origini nuove dell’anima alfieriana, romantica nel suo furore antilimite. Sí che mentre le tragedie dell’astigiano pur si imponevano per la forza teatrale («il nostro Sofocle»), restavano mute per la loro essenza lirica. Soprattutto l’Alfieri (di cui in un autentico saggio da far gola a certi lettori moderni, complesso e acutissimo, sapeva vedere la «retorica») urtava il Bettinelli perché la sua sintesi di buon gusto, di ragionevolezza settecentesca e di entusiasmo preromantico ne veniva irrimediabilmente scossa.

A precisare le linee di questo ritratto di scrittore settecentesco (per chi vuol capire meglio i limiti della sua novità e del suo gusto) concorrono ancora piú delle sue opere poetiche e di molti discorsi accademici due squisiti volumi di lettere[15].

In quelle lettere, prendendo le difese delle donne con un arguto femminismo avant-lettre, piú galante che serio, il Bettinelli vi mostra una delicatezza, quasi una mollezza femminea che con il taglio stridulo dell’intelligenza forma un impasto anche esteticamente notevole. Si ripensa al tono squisito di prosa di memoria del Settecento francese in cui su di un impasto sensibile e intellettuale aleggia come una idealità vaporosa, una specie di platonismo sensistico ed edonistico[16].

Interessante dunque già nei suoi limiti di causeur e narratore galante illuministico, perché le estreme punte di sensiblerie sensistica toccano un primo sentimento preromantico, significano dentro il sensismo illuministico un’accentuazione tenera che prepara la decisa sensibilità romantica.

Sensiblerie a volte molto accentuata in Bettinelli con quel sintomo chiaro di languore, di lacrime, di «anime sensibili» che preannunciano la sentimentalità sempre larmoyante dei romantici (anche le guardie, le sentinelle singhiozzano di pietà nelle Mie prigioni). Sensiblerie romanzesca svolta specialmente in lettere-novelle, come quella della Catina, della fanciulla che si sposa di nascosto con un pastore insieme al quale è cresciuta e che si vergogna di svelare il suo segreto alla signora che la protegge: «Io mi intenerii tanto [narra la protettrice] che credo piangessi o poco meno. Ma bisognò ben pianger davvero a vedermela cader in ginocchio davanti, stringermi le mani, inondarle di baci e di lagrime con sospiri, con singhiozzi, con trasporti, che io temei di qualche sconcerto, e di vederla svenire a’ miei piedi»[17]. Sensiblerie romanzesca che si sviluppa addirittura in un vero e proprio romanzo breve di ambiente inglese (Bettinelli è uno dei rappresentanti della anglomania italiana), pieno di tenerezze, di virtú premiata, di semplicità pastorale alla Gessner e di elogio dello stato di natura alla Rousseau. E non a caso vi compare il «romanzesco» nel senso che il Berchet separerà da romantico, ma che ancora in Rousseau si confondeva con questo nel senso generico di fantastico, sognatore. «Forse le mie letture mi facevano un po’ romanzesca»[18]. Romanzetto in cui è chiara l’influenza dei romanzieri francesi o inglesi (specie Richardson) nell’indagine delle sensazioni, nella trama a poco a poco sempre piú sentimentale che logica del racconto. Sempre nel limite del conversatore elegante ed accademico, l’impostazione di sensibilità è tale da farne un documento di avvio preromantico e da indicare già in questa opera di lettere-racconti uno dei punti nuovi del Bettinelli, in certo senso l’appoggio sia pur poco sicuro e compromesso delle sue intuizioni sulla ispirazione, sull’entusiasmo artistico. C’è tutto un fiorire di «delirio del cuore», di «teneri sentimenti». «Era un continuo riverbero de’ piú sinceri affetti da tutta la famiglia in me, da me in tutti loro, il centro de’ quali era Rachele»[19]. Una impostazione piú tenera che lo distacca dai racconti illuministici di cui ancora l’Abaritte del Pindemonte (1792) sarà tardo documento.

Un atteggiamento apparentemente contraddittorio da considerare nel Bettinelli è la sua decisa antipatia per quei testi preromantici piú chiaramente definiti che, negli anni intorno al 1770, venivano tradotti abbondantemente in italiano. Mentre egli è aperto alla comprensione (salvo le estreme conseguenze ideologiche anticattoliche) dei modelli letterari illuministici stranieri, si mostra ben presto ostile ai veri preromantici contro cui, nel suo complesso e complicato accordo illuministico-preromantico, oppone un senso del regolare e dell’equilibrato in nome della tradizione italiana (lui cosí comunemente accusato per le Virgiliane di essere un iconoclasta spregiudicatissimo!) e del buon senso ragionevole. Disprezza Shakespeare e le tragedie «sregolate» inglesi e si oppone alla tragedia «lagrimante» o quella del «tragico furibondo ed orrendo». «Mangiar il cuor d’un amante, disperarsi in un chiostro, o in un eremo per amore, gli spettri e le prigioni, i sepolcri e i palchi fan delle scene spaventose e non passionate, fanno paura allo spettatore invece di toccarne il cuore»[20]. Riprovazione che è insieme su base nuova, come indicano le ultime parole da noi citate, in nome di una vera appassionatezza, in nome di un buon gusto naturale, non esagerato, a cui si appelleranno i veri romantici italiani, che pure accettavano ben piú decisamente del Bettinelli i princípi della nuova poesia (si pensi all’articolo del Berchet su Tedaldi Fores[21], al Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica del Leopardi).

Poi, verso la fine della sua vita, questa ribellione contro i preromantici stranieri si colora ancor piú di insofferenza, di senso nazionalistico. Dice dei poeti tedeschi che tanto un Bertola ammirava: «Non crediate però i tedeschi sempre gelati, che san passare anch’essi dal gelo al fuoco, e dalla quiete al delirio. L’aurea mediocrità non la trovaron mai. Klopstock, Zaccaria [Werner], Gleim son fedeli a Milton nella teologia scolastica, nel tirar de’ cannoni angelici, nel ponte della morte ecc. con que’ loro poemi metafisici, con que’ geni a caval d’un raggio, con quelle guance messe a cartocci, e con simili stravaganze di fantasmi indigesti, o ubriachi»[22]. In cui è da notarsi anche che il Bettinelli, fedele al suo sostanziale sensismo, credeva di combattere contro i nuovi poeti la stessa battaglia che aveva combattuto contro gli scrittori astratti e secentisti in nome di un concreto realismo e di una poetica del buon senso. E con un giudizio che contemporaneamente mette in luce la sua adesione intuitiva ad una concezione sentimentale della poesia: «Certo a me sembra non poter questo pianto versarsi e questo duol risentirsi fuorché da una anima nata a ricevere le soavi impressioni ed eccelse, da cuori onesti e bennati, che al disopra d’ogni nebbia di senso tentando lor voli quasi celesti abitar credono le sfere ascoltandone l’alta armonia, o separati dal vulgo si inebriano l’anima dell’arpeggiar patetico d’un liuto che per essere appien gradito, richiede silenzio piccola stanza e pochi ascoltatori, com’altri disse. Or va’, se sai, or godi lo strepito delle catene, l’apparizione delle fantasime, l’orror delle carceri, de’ cimiteri delle Trappe fra gli omei, le bestemmie, le maledizioni infernali di quegli eroi ed eroine francesi, inglesi, alemanne, e de’ loro piagnoni gli Arnould [Arnoud], gli Joung [Young], gli Arvei [Hervey] e di tanti altri profanatori della sacra memoria dei buoni Tibulli e de’ casti Virgili»[23].

Reazione che non si svolge evidentemente su di un puro terreno illuministico, e che unisce il gusto di una sensibilità tenera e sveglia e quello di una compostezza semplice naturale, che, equivocando, si raffigurava la nuova poesia preromantica straniera come un ritorno di quel malgusto barocco contro cui aveva lottato già il primo Settecento, ma da cui si era affrancata per il suo fondo moraleggiante, per il suo atteggiamento antilirico solo la poetica sensistica mentre ancora sotto l’esile canto dell’Arcadia si poteva celare certo l’utilizzazione della immaginosità marinistica[24].

È del 1769 il saggio maturo della intelligenza bettinelliana: Dell’entusiasmo delle belle arti, libro diremmo sperimentale, discontinuo, ma ricco di spunti nuovi in un atteggiamento di sostanziale eleganza discorsiva: «Lungi adunque da noi e il sottil metafisico ed il severo geometra, ed il freddo e secco analitico, dove han seggio primario immaginazione e sensibilità»[25].

La posizione di partenza consiste in una difesa briosa dei diritti della fantasia che si rivendica dal predominio tirannico della ragione: «Oggi veggiamo i progressi incessanti della ragionatrice ed osservatrice filosofia, la qual quanto giova al sapere tanto nuoce all’immaginare. Geometri e fisici vanno fra noi multiplicando ogni giorno con grande onore ed utilità delle scienze, ed il loro dominio si stende allo stile, si mesce col gusto nell’opere d’eloquenza, e di poesia, dicendo alcuni perfino che la conversazione divien filosofica. Verran dunque meno i buoni poeti, gli egregi oratori, e cesserà quella dolce illusione, che bilanciava gli error col diletto, la qual tanto è pur necessaria alla vita quanto forse la verità, se nell’umano sapere verità conosciamo sicure»[26].

Senza esagerarne l’importanza, come avverrebbe a chi si fermasse meravigliato ad ogni affermazione sulla libertà della poesia, quest’opera è certo notevolissima, anche se i nuovi motivi si armonizzano in una sintesi ancora moderata, non tempestosa come in Diderot, non originalmente profonda come in Lessing. Fondamentale è la posizione iniziale: entusiasmo, ispirazione libera che ritrova perfino nella stessa vita degli artisti, «gente... capricciosa ed indocile, e tutta libera e indipendente»[27]. Certo si ha un po’ troppo l’impressione che quella libertà sia sempre piuttosto la libertà del «capriccio», del je ne sais quoi, e certo in questo entusiasmo manca l’impeto originale e irrazionale dell’impulso naturale dell’Alfieri, di cui ad ogni modo costituisce un precedente nella nostra cultura letteraria. È un entusiasmo privo della barbarie che ebbe l’intuizione nuova della poesia nel Diderot: «quelque chose d’enorme et de barbare et de sauvage».

Ma già l’impostazione è ingegnosa e veramente adatta a indicarci dov’è il nuovo del Bettinelli: non una teoria, non un esempio di poesia costruita in maniera nuova, ma una impostazione nuova anche se non rivoluzionaria, una impostazione appunto non teorica e non razionalistica (per quanto nutrita di precisione e di lucidità), ma sensibile e sentimentale. Egli non vuole definire l’entusiasmo, vuol «farlo sentire». In questa posizione originale tutto il libro acquista la sua aria sensibile, aperta a notazioni nuove, ad atteggiamenti che non sono piú quelli di un Parini o di un Bettinelli in quanto poeta.

Precisato che vuole «conversare con i suoi pensieri ed insieme sentire le scosse del cuore e degli affetti, seguir le vie delle fantastiche illusioni, dividersi in due personaggi, l’uno tutto riflessione, l’altro capriccio, quindi meditando e quindi sognando, ma con sogni osservati dalla ragione...» («Posto ciò perché dunque mi chiedono un primo principio, una cagione efficiente, l’ultima risoluzione spirituale dell’entusiasmo, quand’io voglio principalmente farlo sentire, eccitarlo, istruire i cuori, e gl’ingegni nella pratica facoltà dell’umane lettere e dell’arti d’immaginazione?»[28]), il suo compito viene da lui fissato cosí: «Scuoter l’anima quanto posso».

Il Bettinelli ha dunque coscienza della sua novità e nel suo contrapporsi agli scrittori di retoriche e di estetiche è già un nocciolo interessantissimo di novità e di libertà sentimentale. «Il miglior giudice è la naturale disposizione, la quale pretendo porre a cimento il piú che può farsi; perché parlo dell’anima piú sensibilmente, che niuno ancor non ha fatto. Il mio trattato non è come gli altri esser sogliono, e non dee leggersi come gli altri trattati. Il lettor qui dev’essere autore, o compagno almen dell’autore che scrive, ed io scrivo per consultarlo standomi cheto in disparte a rimirar ciò ch’ei sente, ciò che risponde a me, che in lui risponde allor che legge. Cosí la natura e il sentimento sono le nostre consigliatrici i veri autori del libro»[29].

E piú oltre rinsalda questa posizione tra dilettantesca e sentimentale in una discussione en artiste, non da filosofo: «Parmi ad un certo modo aprir qui un’accademia delle bell’arti, nella qual si voglia i principî cercare di quelle filosofando, ridurle a sistema, indagarne le principali proprietà e gli essenziali attributi con ordine, con diduzione, con raziocinio; ma gli accademici tutti a tal fin meco raccolti, non han che pennelli e scalpelli, stromenti di suono, e di canto, né sanno appena pur ragionare se non che dipignendo e cantando; tra lor s’intendono, è vero, ed hanno insieme una comunicazione, fanno una società piú viva, forse piú intima piú concorde, che non usano gli altri, ma tutto va per la via dell’anima e delle passioni, della fantasia e dei sensi, non come l’altre accademie per argomenti e dimostrazioni e calcoli e dispute dell’ingegno. Quest’arte loro è scolpita dalla natura nel cuor umano, non è nel celabro scritta o nei libri; si vedran dunque dei quadri in una tale accademia, si sentiranno dell’arie e delle sinfonie, chi perora e chi danza, chi disegna ora statue ora edifizi, e chi verseggia; ognun sente e si passiona e ride e piagne e gusta a suo modo, e cosí ognuno a suo modo ad ottenere intende il fin proposto; gente... capricciosa ed indocile, e tutta libera e indipendente, che altro fren non conosce che un saggio istinto, altra guida che un dolce affetto»[30].

Impostazione che si spinge fino ad una aneddotica difesa della pura sensibilità contro ogni intervento della logica nel giudizio estetico, e ad una netta separazione degli uomini in sensibili ed insensibili: «Siccome v’ha degli uomini nati senza alcun senso, o con pochissimo dell’armonia, ed insensibili a ciò che incanta e rapisce altri fuori di sé, onde può dirsi, che mancan d’un organo, e quasi d’un senso, che sarebbe il sesto in quegli altri; cosí ve n’ha veramente di quelli, che all’entusiasmo dell’arti sono immobili e sordi naturalmente; a’ quali se pur volesser conoscerlo io direi volentieri, che allor possono sospettarlo quando non san che farsi della loro anima, e piú s’annoiano udendo o leggendo, perché il sol raziocinio o la logica sola, per cosí dire, dell’anima avendo, ove questa non ha esercizio ed occupazione, come avviene nell’opere a lei straniere dell’entusiasmo, debbon essi trovarsi appunto in ozio totale e quindi il tedio sentire dell’inazione. Di che molti esempi sappiamo, come di quel geometra che leggendo le scene piú passionate della Fedra, e dell’Ifigenia di Racine, che tante lagrime han fatto spargere, dimandava in aria di stupefatto, e che prova questo?, cercando quivi una dimostrazione, che sol cercava ne’ libri e intendeva; simile a quello che non avea di piú gran piacere leggendo Virgilio fuor di quello di veder su la carta geografica il viaggio d’Enea; ed era un matematico anch’esso»[31].

E la definizione stessa dell’entusiasmo batte, sempre con terminologia sensistica, sull’elemento passionale e diremmo piú contenutistico che formale (le rivoluzioni letterarie di tipo romantico cominciano sempre con una affermazione di contenuto contro una forma morta): «entusiasmo è una elevazione dell’anima a vedere rapidamente cose inusitate e mirabili passionandosi e trasfondendo in altrui la passione».

L’entusiasmo del Bettinelli (che egli raccomanda a p. 56 di non confondere col «buon gusto e con l’arte» distiguendo quasi un momento contenutistico romantico da uno classicista formale) è indubbiamente l’indice di una esigenza di libertà fantastica che si andava affermando in Italia dopo i lavori settecenteschi del Muratori, Gravina, Calepio, pur essendo insieme (in questa difficile interpretazione storica di un testo complesso e multiforme cerchiamo sempre di enucleare il nuovo, limitandolo insieme nel suo giusto valore) la via d’uscita dell’estro, di una poetica ancora settecentesca, un completamento e una garanzia del gusto illuministico mentre insieme è preannuncio di una piú libera concezione poetica, dell’ispirazione: ciò che nell’impulso naturale dell’Alfieri diventerà radicale vigore di tutta l’espressione umana. Preromanticismo appunto, non deciso romanticismo. In tutte le parti del primo volume dell’opera (Immaginazione, Elevazione, Visione, Rapidità, Novità, Maraviglia, Passione, Trasfusione) audacie e remore si alternano: capacità visionaria del poeta, ma subito correttivo della sanità; psicologia del poeta ispirato, geniale, superiore agli altri mortali, ma limite del buon senso e possibile confusione con la psicologia del poeta estemporaneo, improvvisatore; focosa proclamazione di libertà dalle regole e pronto intervento del buon gusto ad ordinare la folla di spunti originali e bizzarri della «matta di casa» che il Bettinelli segue, esalta e insieme cerca di addomesticare, di normalizzare, e anche di concretare «artisticamente» in risposta a certe abbondanze romantiche sfrenate e inconcludenti.

Quando si passa alla parte che egli stesso distingue dalle altre come derivante direttamente dal cuore, dall’«affetto», dalla «passione», gli spunti preromantici si fanno piú frequenti. «Per me fu sempre la commozione del cuore il ben supremo della mia vita. Rispetto come maggior di me gli ammiratori delle gravi sentenze, de’ caratteri grandi e maravigliosi, de’ misteri politici e cortigianeschi... ma dovrò io riputarmi ed esser detto uom debole ed effemminato, perché nacqui con un cuor tenero e dolce, pronto a fremere ed a compatire, con un bisogno inestinguibile di scuotimento ora soave e delicato, or doloroso e mesto, benché forse perciò piú infelice in una vita sí soprabbondante di pene, sí scarsa di gioie e di contenti?...»[32]. Già un punto da mettersi in conto all’âme sensible di questo periodo di passaggio, in cui la sensibilità sentimentale è la prima, poeticamente e discorsivamente, a presentarsi come base di un nuovo gusto, di una nuova poetica. E piú avanti, a p. 162, c’è un primato dell’entusiasmo sensibile sull’entusiasmo tout court, c’è l’affermazione di un dominio incontrastato della sensibilità sulla semplice ispirazione fantastica o sulla semplice perfezione, che si traduce in un canone esemplare di autori e di brani risentiti in tipica maniera preromantica e potremmo dire perfino romantica. «Il qual caldo ove avviva l’opere belle ivi piú le abbellisce, come il piú bel di Virgilio è il libro quarto, son le piú belle le rime funebri del Petrarca, la pazzia d’Orlando, l’eroidi di Ovidio, l’Ugolino di Dante. Sembrano allor divenire i poeti maggior di se stessi. Virgilio allora dal bello saggio, che è il proprio di lui, passa al bello sublime e maraviglioso. Ovidio allora non è piú scherzevole e concettoso, si dimentica dell’ingegno e degli scherzi per gl’infortuni tragici degli amanti. Petrarca stesso non è cosí nobile ed elegante come suol per lo avanti, ma nel piangere Laura morta abbandonasi alla mestizia, e allo stil naturale di quella, come Properzio tralascia l’erudizione, e Tibullo disprezza le grazie e le sagrifica al pianto. E certo investiti che siamo da un tal entusiasmo certo non mancaci eloquenza, evidenza, bellezza e forza poetica ed oratoria e pittoresca, e d’ogni fatta»[33]. Poesia sensibile e sentimentale che anche nelle arti figurative (cui accenna spesso con intonazione neoclassica) darebbe vita maggiore al puro elemento pittorico. «Io poi cento volte ho considerato il mirabile boschereccio di Tiziano nel San Pietro Martire sí famoso, e andava dicendo a me stesso: se non fossero quegli alberi cosí belli per altro, che empion quasi tutta la tela, quanto meno godrei? Ma il santo a terra ferito, e al cielo rivolto, lo sgherro feroce, e bieco, la fuga del frate compagno, e lo svolazzo dell’abito suo quanto mi muovono, e in quanti modi? Lo stesso direi del bellissimo Solitario del Pussino [Poussin], detto l’Arcadia, in cui certo la selva, e l’ombra, e il deserto son dipinti da gran maestro; ma quel mausoleo colla statua giacente d’una morta beltà, ma due pastori, o due pastorelle, che sopra vi piangono, e spargono fiori, qual dolce mestizia non mettono in cuore su la fragilità d’ogni bellezza, a che essi pensano, e mi fanno pensare profondamente?»[34]. Mentre un esempio notevole di piú intensa e nuova commozione di fronte al sublime naturale il Bettinelli ce lo dà in una interessantissima nota alla prima parte in cui esprime la sua emozione di fronte al Vesuvio e alle Alpi[35].

Nella seconda parte, intitolata Genj ed ingegni, le pagine che riguardano i geni appaiono anche piú decisive su questa strada al romanticismo. Si aprono proprio con una discussione sulla parola genio: la distinzione tra genius ed ingenium era tradizionale, ma risorge nel Settecento ad indicare il prevalere nel primo caso di qualità superiori, sovrumane quasi, fino poi ad identificarsi con l’individuo dotato di tali qualità. E questa concretizzazione, individualizzazione del genio è uno dei punti di demarcazione fra illuminismo e romanticismo[36]. Il Bettinelli coincide in queste pagine con l’uso ormai europeo di «genio» e tutto il suo studio sull’entusiasmo assume nuovo valore quando le ricerche della psicologia dell’entusiasmo vengono trasportate nel concreto dei geni, cioè dei poeti romanticamente intesi[37].

Il genio, che è la concretizzazione dell’entusiasmo («anime elevate a veder rapidamente cose inusitate e mirabili: passionandosi e trasfondendo in altrui la passione»), comprende «l’ingegno, ma grande, la fantasia, ma forte, il cuore, ma risentito», ed è distinto dagli ingegni anche perché è tipicamente genio poetico, non, come in Alfieri, radicalmente un uomo che può già divenir eroe, santo, scrittore.

Descrizione del genio che è descrizione di un nuovo tipo di poeta (pur con i correttivi di bizzarria e di ordine e di buon senso settecenteschi) che ha per base essenziale il sentimento: «L’arti infine nacquer dal cuore o egli se le attribuí. La prima pittura, i primi versi, la prima statua furon le lodi, o i ritratti ancor rozzi d’una cara bellezza, e dell’ombra gittata da lei, furono i cantici della gratitudine verso gli Dei... Insomma bisognerebbe da tutto questo conoscere quanto meriti il cuor dell’uomo la nostra attenzione, che sinora abbiamo rivolto all’ingegno e al talento, non so perché»[38].

Preminenza del sentimento che certo lo induceva a percepire un merito di novità, e di coerenza alla sua intuizione, in quei poeti preromantici stranieri come il Macpherson che pure egli criticamente disprezzava come eccessivi e stravaganti. Tanto che viene a parlare di poeti colti e gentili e di poeti geni sublimi nella loro saggezza: «Omero, Dante, Ariosto, Milton, Cornelio [Corneille], tra’ poeti sembrano fare una classe primaria, e chi venne dopo tra maggior lume, e coltura restar sembra di sotto in questa parte, come Virgilio, Petrarca, Tasso, Pope, e Racine, i quali nel bello sono superiori. Quelli mancano nel disegno, nel decoro, nel costume, in che questi sono maestri; ma quelli il son nel sublime, che sta soprattutto. La scarsezza in lor di parole, o di frasi è compensata dalla lor forza, ogniuna mi dice qualche cosa, mi dipinge, e presenta un’immagine, mi discopre una verità, e quel rozzo, e semplice stesso ingrandisce le cose, e me medesimo, mi occupa tutto, e mi sottomette, né ho tempo di riflettere, se vi manca il metodo, l’armonia, la decenza. Tutto è cosa in quello stile, e le parole medesime sono cose, perché fan colpo, ed effetto piú forte. Laddove noi coll’arte, e colle parole spesso inutili, e al piú sonore, troppo affollate, e però oscure, co’ periodi contornati, e rotondi, e quindi sterili, e fiacchi, con sinonimi, e con epiteti di puro lusso, noi cosí togliamo la forza, la maestà, la grandezza al parlare, come al dipinger le tolgono i finti contorni, l’ombre sbattute, le mezze tinte, e le tenere carni, e gli studiati panneggiamenti, e il colorir delicato, senza cui Michel’Angelo giunse ad una grandissima sublimità»[39]. Quel sublime che troverà un adeguato sforzo teorico in Kant, ma che si forma nel campo vivo della esperienza artistica, delle discussioni preromantiche.

Chi infine volesse una riprova di quanto alcune intuizioni preromantiche urgessero nello spirito bettinelliano, pure nella sua mentalità illuministica, potrebbe richiamarsi alla sua opera piú famosa, le Lettere virgiliane. Scritte in pieno trionfo illuministico, una dozzina d’anni prima del piú maturo svolgimento delle sue idee sull’entusiasmo, le Virgiliane sono state considerate senz’altro come il frutto estremo di un atteggiamento aridamente razionalistico. È giusto pienamente questo giudizio tradizionale? Riesaminiamo brevemente lo schema e il risultato delle Virgiliane.

Si immagina che nell’Eliso, Virgilio (che il Bettinelli ammirava molto per la sua estrema civiltà letteraria) con altri antichi sia stato spinto dalla tracotanza di un imitatore dantesco a ricercare la Divina Commedia e a leggerla in adunanza poetica. L’effetto è in generale disastroso, perché il poema è trovato oscuro, irregolare, di contenuto superstizioso, scolastico, inverosimile, «imbroglio non definibile», in contrasto con uno stile proposto da Virgilio «elegante, chiaro, armonico, sostenuto, pieno di pensieri giusti, verosimili, nuovi, profondi», con parole «usate e intese, proprie, scelte», con rime «facili e naturali». Questo poema abnorme, «mostruoso», viene scusato tuttavia per esser nato «in mezzo a tanta ignoranza e barbarie», ma dichiarato inammissibile nella sua interezza, viene ridotto a «tre o quattro canti veramente poetici» e cosí messo accanto agli altri classici (ciò è detto nelle lettere III e IV: nelle altre si giudicano il Petrarca, l’Ariosto, i petrarchisti e piú rapidamente gli altri poeti italiani). Anzitutto si noti l’indole «alla brava» di questo scritto e la sua natura polemica in cui l’esagerazione (come nel Baretti) è spesso accettata per gusto del disegno polemico. Inoltre si noti che da un punto di vista illuministico (cioè utilitario, non dissimile anche in ciò dal Baretti) vien fatta giustizia non solo dei danteschi, e di riverbero di Dante, ma dei petrarcheschi e del Petrarca (per le sue ripetizioni), dell’Arcadia e della Crusca, delle Raccolte, ecc. C’è dunque quella vena moralistica e polemica che organizzerà la critica del Baretti.

«L’Arcadia stia chiusa ad ognuno per cinquant’anni, e non mandi colonie o diplomi per altri cinquanta. Colleghisi intanto colla Crusca in un riposo ad ambedue necessario per ripigliar fama e vigore. Potranno chiudersi per altri cinquant’anni dopo i primi, secondo il bisogno»[40].

Ma soprattutto proprio nel giudizio di Dante cosí spavaldo e provvisorio, mentre prevale la posizione illuministica del buon gusto, che gli mancò per la rozzezza dei tempi («A Dante null’altro mancò che buon gusto, e discernimento nell’arte. Ma grande ebbe l’anima e l’ebbe sublime»[41]), e gli sfugge appunto perciò una concezione unitaria del genio dantesco, nella discussione-esame delle parti belle e non belle, di «poesia e non poesia», risalta un punto nuovo, certamente piú nuovo e piú romantico degli argomenti delle «difese» di Dante.

Il passo che piú piace agli Elisi è il canto del conte Ugolino: «chi piagnea, chi volea metterlo in elegia, chi tentò di tradurlo in greco ed in latino; ma indarno. Ognun confessò, che uno squarcio sí originale e sí poetico, per colorito insieme e per passione, non cedeva ad alcuno d’alcuna lingua e che l’italiana mostrava in esso una tal robustezza e gemeva in un tuono cosí pietoso, che potrebbe, in un caso vincere ogni altra»[42].

Se l’accusa alla fama di Dante che sarebbe stata fondata «su qualche vera bellezza e sul gregge infinito di settatori» può essere avventata e poteva suscitare reazione (che non ha però in sé e per sé il valore che avrà poi la rivalutazione di Dante stesso quando fu messo in compagnia di Milton, Shakespeare, ecc. perché nel primo caso poteva essere reazione di tradizionalisti e di campanilisti), la precisa limitazione alla potente espressione di patetico, di dolente, disperato, di sentimenti sublimi ed estremi, indica l’accentuazione di un gusto sentimentale e realistico, di un amore del concreto umano che sarà sviluppato e realizzato nel romanticismo. E allo stesso modo, alla amorfa accettazione di tutto il poema da parte degli avversari, il primato dato all’Inferno in confronto del Purgatorio e del Paradiso indica quell’amore per la situazione realizzata quasi popolarmente fuori di presupposti culturali, fuori di pretesi schemi filosofici, che ritornerà giustificata da tutta l’estetica romantica fino nel giudizio desanctisiano[43].

Come si sa le Lettere virgiliane commossero la turba dei letterati italiani a sdegno e furore e li stimolarono alla difesa del grande poeta nazionale. Ma, contrariamente al giudizio comune delle storie letterarie, questo sdegno è spesso di carattere assai equivoco e non rappresenta in genere l’indice di un nuovo gusto latente, contro l’audacia illuministica del Bettinelli. Questo è proprio uno di quei luoghi comuni che uno studio diretto dei testi settecenteschi porta a modificare se non a capovolgere. Certo Dante diventò per il romanticismo il vate e il poeta primitivo, l’autore della lunga lirica (come dirà il piú grande dei romantici, il Leopardi), ma ciò avverrà dal Foscolo in poi. E la coscienza della sua potenza geniale e positivamente primitiva (secondo lo schema vichiano-foscoliano) nascerà soprattutto con i preromantici stranieri (Bodmer e gli svizzeri) e con la sua inclusione nel canone preromantico barettiano, cesarottiano, ecc. (Dante, Shakespeare, Milton; Dante, Ossian, Omero). In Italia lo sdegno dei letterati è assai spurio e ben piú convincente in senso positivo quel nocciolo di riconoscimento del genio dantesco che dopo le Virgiliane il Bettinelli poteva rinforzare, come fece con le giustificazioni dell’Entusiasmo.

Tutti seguitarono poi durante l’Ottocento a condannare come profanazione le Virgiliane, ma l’accettazione romantica di Dante svolse piú il nucleo nuovo di quell’affermazione limitativa che non la generica e vuota ammirazione degli accademici tradizionalisti.


1 Versi sciolti di tre eccellenti autori, Bassano 1795, p. 190.

2 È ovvio notare una volta per tutte l’atteggiamento cortigiano di questi poeti illuministi cosí contrastante con l’atteggiamento quasi libertario dell’Alfieri romantico:

né visto è mai de’ dominanti a lato...

ché nostra vera madre è libertade.

3 Versi sciolti cit., p. 191.

4 Ivi, pp. 190-191.

5 Ivi, p. 216.

6 Ivi, p. 219.

7 E certo alla sua poetica pratica presiedono princípi chiaramente illuministici, un gusto formato sull’incontro Cartesio-Newton e sulla loro traduzione nell’esperienza del Metastasio. Cfr. Versi sciolti cit.: «Lo stile elegante, chiaro, armonico, sostenuto, questo è ciò che ricopre ogni altra iniquità d’un poeta... Le imagini dello stile debbono pur essere ben colorite e nobili, e con grazia e venustà contorniate, i pensieri giusti, verisimili, nuovi, profondi, le parole usate e intese, proprie, scelte, le rime facili e naturali, il suono e la melodia quasi cantante e cosí dite del resto» (Lettere virgiliane, Bari 1930, p. 13).

8 Le raccolte, a cura di P. Tommasini Mattiucci, Città di Castello 1912. Vedi F. Colagrosso, Un’usanza letteraria in gran voga nel ’700, Firenze 1908; L. Chiarelli, Sui versi sciolti e sulle lettere di S. Bettinelli, in «Bullettino del Museo civico di Bassano», VI, 1909.

9 Si riveda in proposito la Storia della Critica romantica del Borgese.

10 B. Croce, Estetica, Bari 1908, p. 275.

11 Nel pieno dell’illuminismo italiano lo spirito nuovo riesce a coesistere in uno strano accordo con lo spirito cattolico che, mentre ne veniva intaccato, minava a sua volta l’estremismo illuministico.

12 Il sicuro europeismo del Bettinelli durò finché il tradizionalismo sciovinistico non prevalse piú potente alla fine del secolo per mescolarsi con il nuovo e romantico sentimento nazionale. Sulle relazioni con l’illuminismo francese si veda A. De Carli, Riflessi francesi nell’opera di Bettinelli, Torino 1928.

13 S. Bettinelli, Opere, Venezia 1799-1801, vol. XXI.

14 Il gesuitismo del Bettinelli ebbe atteggiamenti piú precisi nel suo insegnamento e nella sua attività teatrale: v. F. Colagrosso, S. Bettinelli e il teatro gesuitico, Firenze 1901.

15 Opere, ed. cit., voll. XIV e XV: Lettere d’un’amica tratte dall’originale e scritte a penna corrente. Si noti il gusto per l’improvvisazione salottiera, per la causerie brillante che permea tutto il suo stile anche quando si tratta di argomenti critici. Si noti del resto che questo atteggiamento complicandosi con quello della dissertazione accademica passa anche negli autori piú avanzati del preromanticismo e condiziona quella prosa fine Settecento che resisterà in un Pindemonte, in un Bertola: e che è perfino da calcolare come costume e tono letterario nei confronti delle Operette morali leopardiane, come gusto moralistico ed accademico conciliabile con la tradizione cinquecentesca dei Doni e dei Gelli.

16 Una prosa che trova il suo centro in un erotismo nella sua forza sensuale, e insieme nel suo fascino alleggerito di mito elegante e religioso: pensare al cinismo squisito di Laclos o al racconto della doppia contemporanea avventura di Casanova con Lucrèce e Angélique a Frascati.

17 Ivi, vol. XIV, pp. 130-131.

18 Ivi, vol. XV, p. 25.

19 Ivi, vol. XV, p. 107.

20 Ivi, vol. XIX, p. 79.

21 G. Berchet, Opere, II (Bari 1912, p. 136). Si leggano queste espressioni che somigliano a quelle da noi riportate del Bettinelli: «Sí, vogliamo tremare, e lagrimare e gemere, perché tra i tanti diletti poetici sappiamo anche noi che è soavissimo quello della malinconia e del pianto. Ma le lagrime non sono mai figlie dell’orrore e del ribrezzo. Vogliamo anche noi esser percossi dal terrore. Ma ecc. ecc.». E si confrontino questi avvii poetici del giovane Leopardi: «Or non metterò a confronto la delicatezza, la tenerezza, la soavità del sentimentale antico e nostro, colla ferocia colla barbarie colla bestialità di quello dei romantici propri. Certamente la morte di una donna amata è un soggetto patetico in guisa ch’io stimo che se un poeta, colto da quella sciagura, e cantandolo, non fa piangere, gli convenga disperare di poter mai commuovere i cuori. Ma perché l’amore dev’essere incestuoso? perché la donna trucidata? perché l’amante una cima di scellerato e per ogni parte mostruosissimo?» (Tutte le opere, a c. di W. Binni, Firenze 1969, vol. I, pp. 938-939); «Nella fantasia di costoro [i nordici] fa molto piú a caso qualche lampada mezzo morta fra i colonnati d’un chieson gotico dipinta dal poeta, che non la luna su di un lago o in un bosco; piú l’eco e il rimbombo di un appartamento vasto e solitario che non il muggito de’ buoi per le valli...» (p. 924).

22 Opere, vol. V, pp. 26-27.

23 Altre volte nomina Ossian, Klopstock, Gessner insieme a Gellert e Pope con evidente confusione e con furore puramente sciovinistico. E di Pope fa del resto altrove un elogio tutto illuministico: «Trovo de’ difetti in Orazio, in Omero, in Virgilio, in Voltaire, nel Tasso e nell’Ariosto, e non ne trovo in Pope, e lo metto sopra tutti, dopo che quest’uomo ha saputo abbellire e dar forza alle piú alte insieme e piú necessarie massime della morale dell’uomo, temperando mirabilmente la piú bella poesia colla filosofia piú pregiata» (Lettere scritte da un inglese, in Lettere virgiliane cit., p. 95).

24 Si ricordi l’aneddoto, narrato dall’Arteaga nelle note al Discorso sul gusto di M. Borsa, sul Metastasio che si preparava, si montava l’ispirazione, leggendo prima lunghi squarci dell’Adone del Marino.

25 Ivi, vol. III, p. 34.

26 Ivi, vol. III, p. 5.

27 Ivi, vol. III, p. 36.

28 Ivi, vol. III, p. 13.

29 Ivi, vol. III, pp. 32-33.

30 Ivi, vol. III, pp. 35-36.

31 Ivi, vol. III, pp. 28-29.

32 Ivi, vol. III, pp. 160-161.

33 Ivi, vol. III, p. 166.

34 Ivi, vol. III, p. 173.

35 Ivi, vol. IV, pp. 236 ss.

36 Cfr. E. Zilsel, Die Geniereligion, Wien 1918; Die Entstehung des Geniebegriffs, Heidelberg 1926.

37 Anche se piú tardi, nella vecchiaia (1800), egli rinnegò la sua intuizione (già allora limitata) schernendo i diritti incensurabili del genio: «E guai a chi vuol censurare il genio! No no, dee rispettarsi, trovar tutto bello, perché tutto forte, grandioso, sopra le regole e l’uso. Molto piú dopo la morte debbono i genii essere inviolati e sacri; un velo dee coprir loro difetti come velavansi le misteriose divinità degli oracoli e questi davansi nelle oscure grotte di Trofonio, ad ingerir venerazione e culto» (Dissertazione accademica sopra Dante, nella edizione già citata delle Lettere virgiliane, p. 289).

38 Opere, vol. IV, pp. 98-99.

39 Ivi, vol. IV, pp. 76-77.

40 Lettere virgiliane, ed. cit., p. 61.

41 Ivi, p. 15.

42 Ivi, p. 11.

43 Lo stesso Bettinelli mostrò di avere chiara coscienza della sua valutazione non negativa di Dante: «Come potrebbesi lodar Dante, Petrarca e molti altri meglio di lui, poiché sembra far le sue critiche per far risaltare i loro pregi, e spargere masse di oscuro, come dicono i pittori, per far uscire le sue figure piú luminose?» (VI lettera inglese in Lettere virgiliane, ed. cit., p. 115).